Le rappresentazioni fotografiche della Sardegna, a partire dalla metà dell’Ottocento, si aggiunsero alla già consolidata letteratura di viaggio.
Per esempio, il letterato e romanziere, Édouard Delessert (Parigi, 1828-1898) durante il suo soggiorno nell’Isola nel 1854 effettuò riprese fotografiche pubblicate al suo rientro a Parigi nell'album Île de Sardaigne. Cagliari et Sassari. 40 vues photographiques, cui seguì il suo diario di viaggio, Six semaines dans l'île de Sardaigne, dato alle stampe l'anno successivo.
Letteratura, pittura, e fotografia costituiscono le tre modalità di rappresentazione del paesaggio e della cultura sarda da parte di Antonio Ballero, pittore e scrittore (Nuoro 1864-Sassari 1932), attivo in un periodo in cui l’Atene sarda (Nuoro) offrì un contributo essenziale alla costruzione dell’identità sarda, ancora oggi in grado di esercitare la sua malìa (si pensi soltanto allo scultore Francesco Ciusa e alla scrittrice Grazia Deledda).
Da una generazione all’altra, nel caso del fotografo Guido Costa (1871-1951), figlio dello scrittore e studioso della Sardegna Enrico Costa (che Grazia Deledda ebbe a definire come proprio «maestro»), la fotografia si aggiunse alla scrittura nella rappresentazione del patrimonio etno-demologico regionale.
Nel corso del Novecento la fotografia fu un’attività parallela alla ricerca scientifica, e rispetto ad essa integrativa, da parte dell’etnomusicologo Andreas Fridolin Weis Bentzon (Copenaghen nel 1936 – 1971), durante i suoi lunghi soggiorni scientifici effettuati in Sardegna, dal 1953 al 1969, e da parte del linguista bavarese Max Leopold Wagner, profondo conoscitore, oltre che della lingua, della cultura sarda.
L’interesse per gli aspetti socio-antropologici della Sardegna fu motivo di attrazione per Pablo Volta, uno dei nomi più noti nell’ambito della grande fotografia in Sardegna: nato nel 1926 a Buenos Aires da padre toscano, nel dicembre del 1954, incuriosito dalla celebre Inchiesta su Orgosolo dell'antropologo siciliano Franco Cagnetta e dalle tematiche legate al banditismo arriva in Sardegna, a Orgosolo, subì il fascino nei confronti di una cultura sarda concepita come ancestrale e conservativa. Nel 1957 visitò Mamoiada, dove realizzò le prime fotografie del Carnevale locale. Queste, insieme a quelle di Orgosolo, costituiranno l'apparato iconografico del volume Bandits d'Orgosolo, prima edizione dell'inchiesta di Cagnetta, pubblicata in Francia nel 1963. Le sue immagini della Sardegna, con quelle della Lucania di Franco Pinna, apriranno in Italia la strada all'etno-fotografia, genere fino ad allora poco considerato, ma che negli anni successivi avrà una grande diffusione.
Quanto agli aspetti relativi ai rapporti fra economia, società e cambiamento culturale, è importante ricordare uno dei primi esempi di reportage industriale ad opera del viellese Vittorio Besso (1828-1895), che immortalò l’area mineraria di Monteponi (Iglesias). Degne di nota sono anche le fotografie degli anni Cinquanta del Novecento sulla campagna di eradicazione della malaria realizzate Wolfgang Suschitzky, fotografo nato a Vienna nel 1912.
I reportage fotografici pubblicati nelle pagine delle grandi riviste, come «Vogue», come quello realizzato nel 1962 da Henri Cartier-Bresson, pioniere del fotogiornalismo, costituirono un prezioso strumento per render note e valorizzare agli occhi degli “osservatori esterni” le peculiarità della cultura sarda tradizionale.
(Immagine di copertina: Setacciatura della farina. Fotografia di Guido Costa, primi del '900)
Le origini della festa del Redentore a Nuoro sono da ricercarsi nelle iniziative predisposte in concomitanza con l’anno giubilare 1900, allorché papa Leone XIII espresse la volontà che venissero collocate su 19 vette d’Italia altrettanti simulacri di Gesù Redentore. Il Monte Ortobene di Nuoro fu fra le zone prescelte. La diocesi della città barbaricina si occupò di definire le caratteristiche dell’opera e di reperire i fondi necessari. Alla campagna di raccolta dei fondi partecipò anche Grazia Deledda, scrivendo una “lettera-appello” sull’Unione Sarda. La statua bronzea, alta 7 metri e del peso di 18 quintali venne fusa a Napoli, dove risiedeva l’autore, Vincenzo Jerace. Una volta pervenuto a Nuoro l’imponente simulacro fu trasportato da carri a buoi messi a disposizione dai contadini nuoresi. L’opera venne inaugurata il 29 agosto del 1901, con rievocazione annuale e annesso rito religioso. Sin dall’inizio la festa del Redentore, fu animata dalla devozione dei fedeli, perciò può essere senz’altro definita come festività religiosa. A poco più di dieci anni di distanza dall’inaugurazione del sacro simulacro, così si legge nel romanzo deleddiano Canne al vento (1913) a proposito del fermento messo in moto dalla festa: In agosto e settembre fu un andare continuo, un correre affannoso. Dapprima salirono sul monte Orthobene per la festa del Redentore. Era d’agosto, la luna grande, rossa sorgeva dal mare e illuminava i boschi. […] All’alba s’udì un salmodiare lontano; e (scil. Efis) passò la notte a pregare sotto la croce nera che pareva unisse il cielo azzurro alla terra grigia. All’alba si udì un salmodiare lontano; una processione salì da valle e in un attimo le rocce si ricoprirono di bianco e di rosso, i cespugli fiorirono di volti di fanciulli ridenti, e sotto gli elci i vecchi pastori s’inginocchiarono come Druidi convertiti.Sopra l’altare tagliato sulla viva pietra il calice scintillò al sole, e il Redentore parve indugiare prima di spiccare il volo dalla roccia, piantando la croce fra la terra grigia e il cielo azzurro. Con l’andar del tempo al carattere religioso della festa si accostò quello folkloristico. Oggidì i due aspetti convivono, pur essendo ripartiti in momenti differenziati. Il 29 agosto i devoti si radunano di fronte alla cattedrale di Santa Maria della neve, cantando i gosos (laudi sacre in lingua sarda). Da qui prende le mosse un pellegrinaggio di circa 6 km, scandito da 13 stazioni, sino ai piedi del Monte Ortobene. Il momento di maggior solennità è la celebrazione della Messa solenne. Nei giorni precedenti si svolge uno dei più importanti eventi folkloristici dell’Isola. Sfilano circa tremila figuranti in abiti tradizionali, duecento amazzoni e cavalieri anch’essi abbigliati secondo tradizione, le più tipiche maschere carnevalesche della tradizione sarda. Il tutto accompagnato dal sottofondo delle musiche tradizionali eseguite dai suonatori di launedhas, organetto e fisarmonica e dal canto polivocale a quattro voci, detto “a tenore”.
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