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Pani

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Da tempi remoti il pane ha costituito il cibo basilare della alimentazione dei sardi, così come di molti altri popoli di ambito mediterraneo. Tuttavia, in Sardegna il ciclo della panificazione domestica mostra caratteristiche di varietà tipologiche e tratti di persistenza del tutto peculiari, che trovano pochi termini di confronto (p. es. in Sicilia).

La varietà delle tipologie è ravvisabile già all'atto della scelta del cereale e, conseguentemente, della farina con cui comporre l'impasto: prevalentemente farine di grano duro. Relativamente alle farine di grano duro si va da quelle con una più alta percentuale di crusca sino a quelle via via più depurate (in passato appannaggio dei ceti più abbienti, o riservate alle occasioni festive). Si considerino, inoltre, quali elementi variabili, eventuali ingredienti aggiuntivi, che ne costituiscono una sorta di “condimento”: patate, pomodoro, ulteriori prodotti dell’orto, ricotta, grassi (vegetali e animali), olive, ciccioli di lardo, ecc. O, ancora, sapa, miele, uva passa e frutta secca; ingredienti, questi, che comportano uno sconfinamento del pane nell’ambito del dolce.
In un orizzonte economico dai beni limitati, quale era quello tradizionale sardo, delle operazioni di setacciatura, non si buttava via nulla. Infatti, la crusca quasi integrale e altri residui non panificabili per l'uomo integravano il mangime degli animali da cortile, oppure se ne faceva, previo impasto e cottura, una pagnottina destinata ai cani.

Decaduti dall’uso intorno agli anni Cinquanta del secolo scorso sono i seguenti tipi di pani: quello d'orzo, quello di mais e, limitatamente a un'area circoscritta ad alcuni centri dell’Ogliastra, quello a base di ghiande.
Il pane d'orzo era prodotto in zone caratterizzate da terreni dotati di una forte componente pietrosa (Fonni, Oliena, ecc.), dove questo cereale cresceva con maggiore facilità rispetto al grano.  
Il processo di panificazione era ancor più lungo e laborioso rispetto a quello richiesto dal grano: dalla decorticazione (che prevede la rimozione delle glume esterne della carosside, particolarmente fibrose e difficili da asportare) alla setacciatura, all’impasto reso più faticoso dalla minor quantità di glutine contenuto, sino alla lunga e complessa preparazione di uno specifico agente lievitante.
Da tale complessità delle operazioni alle quali era sottoposto il cereale, affinché da esso si potesse panificare, derivava l’imprecazione nuorese «Ancu ti facan su ’e s’òrju» (‘che ti sottopongano al “martirio” dell’orzo’). 
A rendere il pane d’orzo meno gradito rispetto a quello di grano era, oltre al colore scuro, soprattutto il sapore amarognolo dato dalla difficoltosa decorticazione che rendeva impossibile una perfetta setacciatura con la persistenza di elementi che inficiavano il sapore del prodotto finito. L’assoluta preferenza accordata in passato al pane di grano è testimoniata dalla locuzione “Andare chircande pane menzus de su de trìdicu” (lett.: ‘Andare cercando pane migliore di quello di quello di grano’; in senso lato ‘cercare qualcosa meglio di ciò che è superiore a ogni alternativa’). Il pane di grano era apprezzato in quanto sorta di status symbol (“segno di distinzione sociale”) dei ceti più elevati.
Il pane d'orzo  ̶  fatti salvi i casi in cui si sostituiva completamente a quello di grano in seguito a calamità naturali o conflitti bellici  ̶ , invece, era destinato ai servi, come documenta anche il romanzo deleddiano autobiografico Cosima:

[…] la mensola sulla quale, oltre alle pentole, stava un recipiente di legno sempre pieno di formaggio grattato, e un canestro di asfodelo col pane d’orzo e il companatico per i servi.

Il ciclo della panificazione, sia nelle fasi preliminari (lavaggio, vagliatura del cereale e setacciatura), che nel processo di realizzazione del prodotto finito (preparazione del lievito, lavorazione dell'impasto, modellazione e decorazione dei pani, cottura, più eventuale lucidatura della superficie) era una prerogativa quasi esclusivamente femminile. Gli uomini potevano, in casi circoscritti, offrire un supporto nelle operazioni che richiedessero una notevole dispendio di energie e forza fisica, come il trattamento dell’impasto. In ogni caso, tutte le operazioni inerenti alla panificazione erano tra loro coordinate e, pur in modo diverso, ritmavano i tempi della vita domestica, occupando gli spazi della casa o del cortile. 
All'interno del gruppo di lavoro delle donne impegnate nella panificazione vi erano differenze sensibili. Le principali erano quelle di carattere socio-economico, in quanto nelle case benestanti la padrona di casa solitamente era coadiuvata dalle domestiche, da panificatrici e infornatrici a pagamento. In ogni caso era molto frequente lo scambio di aiuto tra vicine, comari e parenti. Al di là delle condizioni sociali ed economiche e dell’ampiezza del nucleo familiare, tutte le donne della famiglia davano il proprio contributo. 

Per quel che concerne l’apprendimento, alle bambine veniva assegnata una piccola porzione di impasto, in modo tale che potessero osservare e imitare, inizialmente per gioco,  i gesti delle adulte, depositando le operazioni apprese nella memoria corporea. Perciò le pratiche, i gesti e le abilità legati alla panificazione costituivano un insieme di “saperi impliciti”, non trasmessi mediante una spiegazione verbalizzata ma esemplificati nella pratica, da osservare e ripetere mediante il processo di “trial and error” (‘tentativi ed errori’).

Che la tradizione mostri in Sardegna caratteri di persistenza, specie nei centri più conservativi, non significa che essa si sia mantenuta anacronisticamente del tutto immune dalle dinamiche di cambiamento legate allo sviluppo tecnologico (abbandono della mola asinaria, impiego di macchine impastatrici e sfogliatrici, ecc.). Il lavoro di decorazione (pintare / frorire su pane) resta un’operazione prettamente manuale, agevolata da strumenti usati anche in passato: rotelle tagliapasta, forbicine, punteruoli, pinzette, marche da pane, ecc.

Oggi il numero delle famiglie che fanno il pane in casa è molto ridotto ma forse, nel complesso, superiore alle aspettative. Accanto a paesi e gruppi familiari che hanno conservato la tradizione della panificazione in ambito domestico, si assiste negli ultimi tempi a una riscoperta, motivata da esigenze identitarie e salutistiche, dei prodotti alimentari realizzati secondo tradizione, fatte salve le differenze tecnologiche poc’anzi indicate.

Si segnala, inoltre, un’inversione di tendenza rispetto ai significati legati all’appartenenza sociale invalsi in passato. Attualmente il pane integrale (pane “nero”) o addirittura quello d’orzo, che più di un produttore è interessato a reimmettere nel mercato, oggi sono considerati pregiati perché ritenuti più vantaggiosi in termini salutistici rispetto al pane “bianco” di grano. Sicché oggi non è più considerata una follia chircare pane menzus de su de trìdicu  (‘cercare pane migliore di quello di grano’).

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La conservazione del grano

Il grano separato dalla pula e ripulito nell’aia da ulteriori impurità veniva messo in sacchi e trasportato al villaggio con un cavallo (“assomare”, cioè caricare sul cavallo una “soma”, ovvero un carico di grano), oppure mediante un carro. Dal momento che ciascuno coltivava il grano necessario alle proprie riserve familiari, non vi erano veri e propri granai. Il grano veniva ammucchiato in un angolo qualunque, dopo aver imbevuto la terra di aceto, in modo tale da tenere lontani gli insetti nocivi (specialmente il punteruolo del grano). Secondo una credenza popolare, rilevata dal linguista Max Leopold Wagner, per tenere lontani i parassiti occorreva disporre sul mucchio del grano (oppure nel recipiente in cui si disponevano le granaglie)  la falce “a picu a susu”, ovvero con la punta e i denti rivolti verso l’alto. Le quantità più consistenti di grano si conservavano in contenitori cilindrici fatti di canne intrecciate, o, specialmente nel Campidano, con stuoie di giunco ciascuna delle quali veniva arrotolata e legata in modo tale da formare un cilindro. Questi recipienti erano denominati in area campidanese “òrrius”, “lòssia”/“lùscia”;  logudorese “òrrios”. Essendo aperti sul fondo i contenitori or ora descritti poggiavano o sulla terra ben imbevuta di aceto, oppure su una base di legno. A qualche palmo dal suolo è incisa nel contenitore un’apertura quadrangolare, che permetteva di prelevare comodamente il grano quando esso non scendeva più da solo. Specialmente i rivenditori di Milis (Oristano), che praticavano il commercio itinerante in tutta l’Isola, vendendo queste stuoie e altri prodotti (arance e vernaccia) specie in occasione delle feste paesane e campestri. Sono certamente milesi i venditori ambulanti ritratti nell’olio su tela di Giuseppe Biasi intitolato La grande festa campestre (1910-1911) con le loro arance e stuoie intrecciate. La conservazione del grano portato dalle aie prendeva il nome di “incùngia” (e simili) ed era accompagnato da un momento festivo di carattere conviviale, durante il quale si festeggiava il raccolto, momento culminante dell’annata agraria.

Leggi tutto Leggi tutto Il grano separato dalla pula e ripulito nell’aia da ulteriori impurità veniva messo in sacchi e trasportato al villaggio con un cavallo (“assomare”, cioè caricare sul cavallo una “soma”, ovvero un carico di grano), oppure mediante un carro. Dal momento che ciascuno coltivava il grano necessario alle proprie riserve familiari, non vi erano veri e propri granai. Il grano veniva ammucchiato in un angolo qualunque, dopo aver imbevuto la terra di aceto, in modo tale da tenere lontani gli insetti nocivi (specialmente il punteruolo del grano). Secondo una credenza popolare, rilevata dal linguista Max Leopold Wagner, per tenere lontani i parassiti occorreva disporre sul mucchio del grano (oppure nel recipiente in cui si disponevano le granaglie)  la falce “a picu a susu”, ovvero con la punta e i denti rivolti verso l’alto. Le quantità più consistenti di grano si conservavano in contenitori cilindrici fatti di canne intrecciate, o, specialmente nel Campidano, con stuoie di giunco ciascuna delle quali veniva arrotolata e legata in modo tale da formare un cilindro. Questi recipienti erano denominati in area campidanese “òrrius”, “lòssia”/“lùscia”;  logudorese “òrrios”. Essendo aperti sul fondo i contenitori or ora descritti poggiavano o sulla terra ben imbevuta di aceto, oppure su una base di legno. A qualche palmo dal suolo è incisa nel contenitore un’apertura quadrangolare, che permetteva di prelevare comodamente il grano quando esso non scendeva più da solo. Specialmente i rivenditori di Milis (Oristano), che praticavano il commercio itinerante in tutta l’Isola, vendendo queste stuoie e altri prodotti (arance e vernaccia) specie in occasione delle feste paesane e campestri. Sono certamente milesi i venditori ambulanti ritratti nell’olio su tela di Giuseppe Biasi intitolato La grande festa campestre (1910-1911) con le loro arance e stuoie intrecciate. La conservazione del grano portato dalle aie prendeva il nome di “incùngia” (e simili) ed era accompagnato da un momento festivo di carattere conviviale, durante il quale si festeggiava il raccolto, momento culminante dell’annata agraria.

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