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Bestimenta infantile

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In s'arcu de tempus cumprèndidu intre sa prima metade de s'Otighentos e sos annos Chimbanta de su Noighentos s'asciugàriu mìnimu pro cada criadura sarda fiat costituidu dae fascas (manthedu, fascas, zimussas e sim.), coprifasce e camicine (coritos e sim.). Si in  custu perìodu sos pipios fiant sutapostos a una fasciatura cumpleta, petzi partinde dae su prenu Noighentos, s'at a impònnere sa pràtica de una fasciatura partziale, limitada a sa tuva e bia a garantire amparu a sa colunna vertebrale.  In custu perìodu sa parte superiora de su corpus est cugugiada dae coprifasce e camiciole, mentras cudda inferiora de pannos istratificados e sacchetti allacciati mediante nastros. In manera cuntemporànea si difundet s'impreu de besti·nde, bene prus longas de s'artària de su pipiu, realizadas cun materiales belle pretziados in relatzione a su status sotziale e a s'ocasione de impreu.

Sa conca de sa criadura est coberta, partinde dae sas primas dies de vida, de cuffiette (caretas, cambussus, iscofias e sim.) de vàriu gènere e materiale, a s'ispissu realizadas cun colores mìscrinos, recramos polìcromos, aplicatziones de passamanerie e frange, segundu un'istile afine a sa bestimenta traditzionale de sos adultos.

Finas a s'edade de tres o bator annos sos pipios bestint bestires chi podent èssere in manera sustantziale ricondotti a duos grandu grupos. Su primu cumprendet ammentas vestimentari  de craru arrastu locale realizados cun tessutos, trincu e ornamentazioni rapresentativos de su grupu culturale chi los at prodùidos. Su segundu cumprendet abitini cun breve carrè e gunnedda a pieghe o arricciature (beste e sim.) modellu indifferenziato pro ambos sessos, riconducibile castas  impreadas a pustis de sas primas dècadas de su sèculu XX in totu Europa.

Intre sos chimbe e sos ùndighi annos maschietti e femminucce bestint, segundu una versione semplificada, bestires sìmiles meda a sos de sos adultos – de sos cales cunservant, a su sòlitu, sas denominatziones – cun sas varanti de prètziu chi sas cunditziones sotziales cunsentint e cun diferèntzias relativas a s'ocasione impreu (festivu o fitianu).

Sos pannos ìntimos, belle fitianu in relatzione a sas cunditziones econòmicas, est costituida dae sottogonne, copribusto, sottovestine, màllias ìntimas e mutande aguales in manera sustantziale a sas de sos adultos. Fintzas sos cartzos, zoccoletti o scarponcini chiodati sunt impreados cun regolaridade petzi intre sos tzetos chi istant bene.

A inghìriu a sos annos Binti de su Noighentos s'assistit a sa graduale introduzione de bestires de assemprat moderna chi ant a finire pro remplasare sas ammentas de ispiratzione traditzionale.

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Abiti tradizionali

L’insieme vestimentario oggi comunemente definito tramite l’espressione “costume popolare della Sardegna” costituisce il risultato di un lunghe e complesse dinamiche di trasformazione e rifunzionalizzazione che occupano il periodo intercorrente fra il XVI secolo per concludersi alla fine del XIX secolo. I più importanti viaggiatori settecenteschi e ottocenteschi  (J. Fuos, W. Smith, il francese A.C. Pasquin detto Valery, A. Bresciani, ecc.) nei loro resoconti tessono le lodi, ammirati,  della magnificenza degli abiti  e della gioielleria dei Sardi. Alcune opere sono illustrate dallo stesso autore, come  Les îles oubliées (1893) del Valery, altre corredate da tavole eseguite da disegnatori e pittori, come le litografie annesse all’Atlas del La Marmora realizzate da G. Cominotti ed E. Gonin, pubblicate per la prima volta nel 1826. Preziose dal punto di vista documentario sono ulteriori fonti iconografiche d’epoca sull’abbigliamento popolare sardo: dalle tavole della Collezione Luzzietti (databili fra la fine del 1700 e gli inizi del 1800), agli acquerelli di Tiole (1819-1826), alle litografie a colori di L.  Baldassarre (1841),  alla Galleria di costumi sardi  del  Dalsani  (1878). Lo sguardo “dall’esterno” dei viaggiatori contribuì non poco ad ammantare l’abbigliamento tradizionale sardo di un’aura mitizzante, declinata in prospettiva antiquaria e comparata al mondo biblico o all’antichità classica. Specie i testi degli autori dell’ultimo trentennio del XIX secolo (von Maltzan, Mantegazza, Corbetta, Vuillier, ecc.) esaltano l’armonia cromatica degli abiti delle popolane e la loro bellezza «antica e fiera». Il carattere conservativo dell’abbigliamento trova riverbero nell’etica austera del popolo che lo indossa e nella postura ieratica. Nonostante l’evidente intento mitizzante, che sarà assorbito anche dagli scrittori sardi  ̶̶  fra tutti il Nobel Grazia Deledda  ̶̶ , tuttavia, nei resoconti dei viaggiatori è colta con estrema attenzione la funzione demarcatrice delle fogge del vestire fra un paese e l’altro.  Le donne […] in Sardegna non escono di loro fogge per niuna cosa del mondo. E comechè i villaggi di Selargius, di Pauli, di Pirri, di Sestu, di Maracalagonis siano così prossimi l’uno all’altro che alcuni sentono le campane delle circostanti Pievi, tuttavia ciascun villaggio si discosta dall’altro per tal maniera, che a prim’occhio si dice: quella è donna di Quartu, quell’altra è di Sestu, di Pauli, o di Sinai: ciò non reca meraviglia a chi conosce il paese, specialmente ne’ luoghi più interni dell’isola. (A. Bresciani, 1850). Tale funzione identificatrice dell’“abito bandiera”, collante per i sentimenti di appartenenza identitaria, permane a tutt’oggi. Attualmente l’abito tradizionale non risponde più alle funzioni pratiche che soddisfaceva in passato: riscaldare il corpo nelle stagioni più rigide, scandire l’identità civile e sociale, indicare lo stato d’animo (la gioia nel cromatismo acceso dei colori e il lutto, principalmente espresso dal nero). Oggidì “il costume riproposto” si indossa limitatamente a occasioni speciali, come processioni, sagre e manifestazioni a carattere turistico. Risponde, sì, alla necessità d’individuare e portare alta la bandiera paesana o cittadina, ma è soprattutto legato alla funzione di definire un’unica identità etnica, quella sarda, pur nella variegata molteplicità delle sue appartenenze locali.

Leggi tutto Leggi tutto L’insieme vestimentario oggi comunemente definito tramite l’espressione “costume popolare della Sardegna” costituisce il risultato di un lunghe e complesse dinamiche di trasformazione e rifunzionalizzazione che occupano il periodo intercorrente fra il XVI secolo per concludersi alla fine del XIX secolo. I più importanti viaggiatori settecenteschi e ottocenteschi  (J. Fuos, W. Smith, il francese A.C. Pasquin detto Valery, A. Bresciani, ecc.) nei loro resoconti tessono le lodi, ammirati,  della magnificenza degli abiti  e della gioielleria dei Sardi. Alcune opere sono illustrate dallo stesso autore, come  Les îles oubliées (1893) del Valery, altre corredate da tavole eseguite da disegnatori e pittori, come le litografie annesse all’Atlas del La Marmora realizzate da G. Cominotti ed E. Gonin, pubblicate per la prima volta nel 1826. Preziose dal punto di vista documentario sono ulteriori fonti iconografiche d’epoca sull’abbigliamento popolare sardo: dalle tavole della Collezione Luzzietti (databili fra la fine del 1700 e gli inizi del 1800), agli acquerelli di Tiole (1819-1826), alle litografie a colori di L.  Baldassarre (1841),  alla Galleria di costumi sardi  del  Dalsani  (1878). Lo sguardo “dall’esterno” dei viaggiatori contribuì non poco ad ammantare l’abbigliamento tradizionale sardo di un’aura mitizzante, declinata in prospettiva antiquaria e comparata al mondo biblico o all’antichità classica. Specie i testi degli autori dell’ultimo trentennio del XIX secolo (von Maltzan, Mantegazza, Corbetta, Vuillier, ecc.) esaltano l’armonia cromatica degli abiti delle popolane e la loro bellezza «antica e fiera». Il carattere conservativo dell’abbigliamento trova riverbero nell’etica austera del popolo che lo indossa e nella postura ieratica. Nonostante l’evidente intento mitizzante, che sarà assorbito anche dagli scrittori sardi  ̶̶  fra tutti il Nobel Grazia Deledda  ̶̶ , tuttavia, nei resoconti dei viaggiatori è colta con estrema attenzione la funzione demarcatrice delle fogge del vestire fra un paese e l’altro.  Le donne […] in Sardegna non escono di loro fogge per niuna cosa del mondo. E comechè i villaggi di Selargius, di Pauli, di Pirri, di Sestu, di Maracalagonis siano così prossimi l’uno all’altro che alcuni sentono le campane delle circostanti Pievi, tuttavia ciascun villaggio si discosta dall’altro per tal maniera, che a prim’occhio si dice: quella è donna di Quartu, quell’altra è di Sestu, di Pauli, o di Sinai: ciò non reca meraviglia a chi conosce il paese, specialmente ne’ luoghi più interni dell’isola. (A. Bresciani, 1850). Tale funzione identificatrice dell’“abito bandiera”, collante per i sentimenti di appartenenza identitaria, permane a tutt’oggi. Attualmente l’abito tradizionale non risponde più alle funzioni pratiche che soddisfaceva in passato: riscaldare il corpo nelle stagioni più rigide, scandire l’identità civile e sociale, indicare lo stato d’animo (la gioia nel cromatismo acceso dei colori e il lutto, principalmente espresso dal nero). Oggidì “il costume riproposto” si indossa limitatamente a occasioni speciali, come processioni, sagre e manifestazioni a carattere turistico. Risponde, sì, alla necessità d’individuare e portare alta la bandiera paesana o cittadina, ma è soprattutto legato alla funzione di definire un’unica identità etnica, quella sarda, pur nella variegata molteplicità delle sue appartenenze locali.

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