Sa Sardigna tenet un'istòria cumplessa, partzida in vàrios perìodos e distinta dae caràteres originales. Sa preistòria est caraterizada dae su Prenuràgicu, perìodu cronològicu prusaprestu ampru partzidu ateretantu in ulteriores bator fases, e de su Nuràgicu, denominatzione chi derivat de su monumentu rapresentativu in manera majore de custa tziviltade.
Sa fase istòrica cumintzat de su sèculu IX a in antis Cristu, cando sa Sardigna fiat istada interessada dae sa colonizatzione fenìtzia, pro posca colare suta de su controllu de sos Pùnicos, in sa segunda metade de su sèculu VI a in antis Cristu.
A inghìriu a su sèculu VI a in antis Cristu Roma aiat cumintzadu a esertzitare sos tràficos cummertziales pròpios in s'ìsula, finas a su 277 cando, cun s'istitutzione de una provìntzia chi cumprendet noa sa Còrsica, sa Sardigna e sas ìsulas in tundu, aiat impostu formalmente s'efetivu controllu suo chi aiat duradu, finas a su perìodu Vandàlicu de su 460-467 a pustis de Cristu. In su sutzessivu 534 s'ìsula fiat istada torrada a conchistare dae Giustinianu pro torrare in manera ufitziale a fàghere parte de s'imperu romanu cun sede in Costantinòpoli. Cumintzat gasi sa longa edade bizantina durante sa cale s'ìsula aiat mantentu una sighida dipendèntzia polìtica e amministrativa de Costantinòpoli. Etotu pro sa largària geogràfica de Costantinòpoli sa Sardigna fiat istada afidada a sa gestione de duas autoridades: su praeses (cun funtziones tziviles) e su dux (cun funtziones militares). Custas duas figuras, de su 800 belle, si fiant fùndidos in un'ùnica autoridade denominada iudex (giùighe o re). Fiant nàschidos gasi sos bator Giuigados, o Rennos, in sos cales sa Sardigna resurtat dividida partinde dae sa metade de su sèculu XI: Casteddu, Arbaree, Torres e Gaddura.
In su 1323 su piseddu Alfonsu de Aragona aiat isbarcadu in Sardigna pro contivigiare s'atu de afeamentu de su Regnum Sardiniae et Corsicae chertu dae paba Bonifàtziu VIII cuntzèdidu a su soberanu aragonesu. De custu momentu in posca at a èssere sa penìsula ibèrica, in particulare sa Catalugna, a costituire su puntu printzipale de riferimentu pro s'ìsula de su puntu de bista polìticu.
Intre su 1714 e su 1718 s'ìsula fiat colada unu cùrtziu perìodu suta de su controllu austrìacu. Posca de su totu suta de cuddu de sos Savojas decretadu dae su tratadu de Londra de su 2 austu 1718. Sa Sardigna aiat mantentu comente si siat sas istitutziones chi esistint finas a su 1847 cando, cun sa gai narada “fusione perfeta” si fiat contivigiada s'unione polìtica e amministrativa cun sos istados de terraferma.
Nella cultura sarda il grano assurge a simbolo di prosperità e buona sorte. Per esempio, il dono (presente) di grano agli sposi era ricorrente specie nell’area centrale dell’Isola, ad esempio, a Nuoro. Lo testimonia Grazia Deledda nel XIV capitolo del romanzo La via del male (1906): Le donne le recavano i doni, si curvavano su di lei augurandole: tanti punti di buona fortuna quanti chicchi di grano le portavano […]. E una volta che Maria Noina e Francesco Rosana convolarono a nozze [d]alle finestre e dalle porte pioveva su di loro una gragnuola di frumento, di confetti, di fiori […]. Nelle straducole del vicinato dei Noina la pioggia di grano e il fracasso dei piatti diventarono furiosi; grida di donne e di fanciulli risuonarono: «Buona fortuna! Buona fortuna!». E anche quando Maria, rimasta vedova, sposò in seconde nozze con Pietro Benu (XXII) capitolo, Zia Luisa, madre della sposa, non pianse, né baciò gli sposi, come l’altra volta, ma gettò su di loro una manata di grano, augurando: «Buona fortuna! Buona fortuna!». È interessante osservare nella stampa Noces, arrive de l’epouse, disegnata da Giuseppe Cominotti ed Enrico Gonin (1839-1840), che rappresenta l’arrivo della sposa e del suo corteo presso la casa dello sposo, come nella parte destra della raffigurazione si distingua la madre dello sposo che, secondo il rito, preleva e lancia alla volta della sposa un pugno di chicchi di grano da un piatto sostenuto con l’altra mano. L’azione successiva sarebbe stata certamente quella di rompere il piatto, provocando un notevole fracasso, la cui funzione magico-scaramantica coincide con l’allontanamento di ogni negatività. Il piatto rotto indica i cambiamenti che coinvolgono la sposa: la perdita della verginità e il passaggio dallo status civile di donna nubile a quello di maritata. Il grano era al centro di riti propiziatori di fine e inizio d’anno, specie con la questua del cereale crudo, o più spesso cotto, da consumare con latte o sapa. Altre fruizioni rituali del grano riguardavano l’ambito domestico. Per esempio, a Silius nel Gerrei l’ultimo giorno dell’anno si mangiava il grano cotto, nella credenza che tale pratica alimentare fosse di buon auspicio per la semina dell’anno seguente, e se ne gettava un poco in tutte le stanze della casa in segno di buon augurio. L’augurio più sincero che resiste ancora nell’area meridionale dell’Isola, la cui economia era prevalentemente contadina, è: «saludi e trigu!» (lett. ‘salute e grano’, in senso lato salute e abbondanza/prosperità!’). Il pane era considerato “sacro” non solo per i significati legati alla liturgia cattolica, ma anche in quanto alimento vivo (per lo più lievitato) e cibo per antonomasia (qualora non si disponesse di companatico o di altro alimento, si mangiava, per lo meno, pani e salia ‘pane e saliva’). Il pane era considerato anche una sorta di doppio dell’esistenza umana. Infatti, se il pane si capovolgeva, ci si affrettava a rimetterlo in posizione, nel timore che, diversamente, sarebbe andata francas a susu sa domu (lett. ‘alla rovescia’) in rovina la casa. Inoltre, se nella famiglia c’era qualche componente coinvolto in un rapporto di fidanzamento, si riteneva che tale relazione si sarebbe interrotta al disfarsi di un pane già messo in forma. Se, invece, il pane si fosse bruciato durante la cottura, ciò era ritenuto presagio nefasto di una grossa disgrazia. Il pane, già considerato di per sé alimento “sacro”, implementava il suo valore protettivo se benedetto e, ancor di più, se intitolato, per voto, a qualche santo particolare. A volte tale funzione protettiva era così marcata da sostituirsi a quella alimentare. È il caso, ad esempio, di su pane ’e Santu Tilippu preparato a Cuglieri il 23 agosto per la festa di San Filippo Benizi, un frate vissuto in Toscana nel XIII secolo, appartenente all’Ordine dei Servi di Maria. Il suo culto giunse nel paese del Montiferru nella prima metà del Cinquecento. È un piccolo pane azzimo decorato con lo zafferano, la cui funzione protettiva soverchia completamente quella alimentare. Infatti, è destinato non già a essere mangiato, bensì viene conservato, date le molteplici proprietà attribuitegli dalla tradizione. Poggiato vicino alle finestre si ritiene, ad esempio, che possa impedire l’ingresso dei pericoli atmosferici. A Macomer, in occasione della Quaresima si preparava un piccolo pane antropomorfo, s’òmine, cinto di un ramoscello d’ulivo benedetto la Domenica delle Palme, che, appeso negli ovili, si riteneva sarebbe stato in grado di proteggere dai pericoli tanto il pastore e quanto il bestiame. Al di là della benedizione religiosa, il pane, già di per sé, era considerato afferente alla sfera del sacro e, in quanto tale, spesso impiegato con funzioni amuletiche. Un pane-amuleto, ad esempio, era quello che si nascondeva fra le fasce o sotto il cuscino del neonato per proteggerlo dalle cogas /sùrbiles (streghe-vampiro), che tanto spaventavano le mamme, le quali reputavano questi esseri dell’immaginario popolare responsabili delle numerose morti neonatali. Ma, se i neonati (fragili per definizione: pipiedhus modhis ‘bambini molli’) specie se non battezzati erano considerati particolarmente esposti alle forze del male, da queste non erano reputati esenti neppure gli adulti. Si riteneva, infatti, che, specie di notte, potessero imbattersi in anime condannate o nelle varie personificazioni del diavolo. In questi casi, avere con sé un pezzo di pane era considerata precauzione sufficiente a garantire la salvezza. Il tema emerge anche dalla narrativa orale di tradizione popolare, in varie modalità, delle quali qui si propone un’esemplificazione: Quello aveva venduto l’anima al diavolo per arricchirsi, poi si era sposato e aveva nascosto un cocoi nel letto. Poi era andato il diavolo, perché era arrivata l’ora di prendergli l’anima. L’uomo aveva detto: «Prima di prendermi l’anima lo vuoi sapere come son nato?». E ha risposto il pane: «Prima mi hanno arato, poi mi hanno zappato, poi mi hanno ventilato, mi hanno macinato, setacciato, poi buttato in una conca d’acqua calda, mi hanno impastato, poi mi hanno nuovamente pestato nel tavolo, mi hanno pestato le ossa, poi mi hanno messo a lievitare, e poi mi hanno buttato nel forno e poi mi hanno mangiato. È spuntato il giorno e il diavolo non ha più potuto prendere l’anima».
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