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Filiera del pane

Filiera del pane

Filiera del pane

Com’è noto, il pane rappresenta un pilastro essenziale dell’alimentazione dei popoli del Mediterraneo. Cibo per antonomasia, esso è dono di una fondamentale pianta di civiltà: il grano.

La filiera produttiva del pane ha inizio al momento della semina, allorché il chicco di grano “muore” nel ventre della terra, affinché, come ricorda il noto passo evangelico (Giov. 12, 24-26), possa portare molto frutto.

Il ciclo coltivatorio del grano sino alla mietitura viene propiziato con numerose forme rituali, per stornare le negatività (carestie, calamità naturali, ecc.) che potrebbero compromettere l’esito dell’annata agraria.

Dalla Pasqua in poi sono diversi, a seconda delle zone dell’Isola, i santi tutelari degli agricoltori invocati al fine di propiziare messi abbondanti: San Giorgio, Sant’Isidoro, San Marco. Per esempio, in occasione della festa di San Marco a Lei, piccolo centro del Marghine, viene preparato tuttora un pane votivo, affinché il Santo accordi il suo aiuto e la sua protezione. Così viene invocato, al fine di un’abbondante mietitura, il Santo evangelista e martire, definito mediante l’appellativo di cogoneri (‘destinatario del pane votivo: sa cogone de Santu Marcu’; ma anche ‘dispensatore di pane’, in quanto protettore dell’agricoltura):

Santu Marcu cogoneri, / Dadenos trigu e laore, / Po bor fagher sa cogoneCant’est  unu fundu de paneri

(San Marco del pane, / Dateci grano e seminati,  /  Per prepararVi un pane / Grande quanto il fondo di un paniere).

La mietitura a s’antiga,  praticata manualmente con l’ausilio della falce messoria, se è vero che costituiva un momento di estrema fatica, sotto il sole cocente ormai estivo, era, altresì, quando fruttuosa, un frangente di festa, durante il quale gioire del raccolto ottenuto. Ben esprime questo concetto una poesia del poeta desulese Montanaru, al secolo Antioco Casula (Desulo 1878-1957):

Cantu ’e messonzu 

A sos massagios de Barbagia

 

Sos trigos sunu che mare

cun lughentesas de oro.

 

Massagiu allegrad’incoro 

e preparad’ a messare. 

 

Amentas como sas dies

umidas, frittas d’atonzu, 

cand’a su nieddu 

aronzu falèin sos primos nies? 

In cussos tristos meries insustu, 

a cappotto ’e saccu 

faghias fogu in barraccu 

pro ti poder ristorare. 

 

Massagiu allegrad’incoro 

e preparad’a messare. […]

 

In terra non b’hat dulzura

non b’hat gioia cunsagrada

si prima non est passada 

che burrasca sa tristura. 

Tottu enit a misura, 

benit tottu cumpartidu. 

Cunfrome a su ch’has patidu 

podes su bene sperare.

 

Massagiu allegrad’incoro 

e preparad’a messare.  

 

(Canto per il raccolto. 

Ai contadini di Barbagia. 

 

Le spighe sono come un mare / dai riflessi d’oro. / Contadino rallegrati nel cuore / e preparati a mietere. //Ricordi ora i giorni / umidi e freddi d’autunno, / quando sul nero campo arato / caddero le prime nevi? /  In quelle tristi sere, / tutto bagnato, coperto dal cappotto col cappuccio / accendevi il fuoco nella capanna / per poterti ristorare. // Contadino rallegrati nel cuore e preparati a mietere. /[…] In terra non c’è dolcezza / non c’è gioia certa / se prima non è passata /  la tristezza come una burrasca. / Tutto è calibrato, / tutto viene ripartito. / In base a quanto hai sofferto / potrai aspettarti cose buone. // Contadino rallegrati nel cuore e preparati a mietere).

Dopo la mietitura, era la volta della trebbiatura nelle aie. Dopo aver ventilato il grano, separandolo dalla pula, lo si portava a casa dentro sacchi.

Anche il momento della conservazione del grano era occasione di gioia e festeggiamenti.

Avvenuta la molitura, espletata, un tempo, in ambito domestico con la mola asinaria, si provvedeva alla vagliatura del grano con ceste, crivelli e setacci (su strexu ’e fenu).

E finalmente con i vari sfarinati era possibile ottenere il pane; alimento “vivo” in quanto fermentato.

Il processo, in passato misterioso, della lievitazione naturale, avvolgeva il pane di un’aura sacrale.

Una tradizione che trova diffusione in ambito mediterraneo vuole che la Madonna, ancora bambina, riuscì a sottrarre con l’astuzia un po’ di lievito madre alla Saggia Sibilla, donna savia ma molto gelosa dei suoi saperi. In questo modo, assieme a Sant’Anna, Maria bambina apprese l’arte della lievitazione, facendone dono all’umanità e, agendo, in questo modo da “eroe culturale”.

Così come tutta la fase del ciclo coltivatorio del grano doveva essere propiziata mediante apposite forme di ritualità, altrettanto era necessario fare affinché la lievitazione, la messa in forma e la cottura del pane andassero a buon fine.

La cultura sarda vanta una varietà di tipologie di pani cerimoniali finemente decorati, veri e propri marcatori temporali, in quanto simboli in grado di distinguere il tempo ordinario dai momenti più importanti del corso dell’esistenza  e del ciclo calendariale.

La semina
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La semina si svolge da novembre a dicembre, dopo l’opportuna preparazione del terreno.
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La mietitura
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Secondo una credenza popolare attestata in varie zone dell’Isola, il grano metterebbe i chicchi la notte di San Giovanni Battista (la notte fra il 23 e il 24 giugno), durante la quale si pensava che la natura acquistasse...
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La trebbiatura
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La trebbiatura
Ultimata la mietitura il grano veniva portato nell’aia, affinchè potesse essere sottoposto alla trebbiatura (log. trìula, ma anche ardzolare; camp. trèula).
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La conservazione del grano
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La conservazione del grano
Il grano separato dalla pula e ripulito nell’aia da ulteriori impurità veniva messo in sacchi e trasportato al villaggio con un cavallo (“assomare”, cioè caricare sul cavallo una “soma”, ovvero un carico di grano), oppur...
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La molitura
Prima della diffusione di una fitta rete di mulini pubblici elettrici, avvenuta tra le due guerre mondiali, due erano fondamentalmente i sistemi usati per la molitura dei cereali: la mola asinaria, variante della mola ro...
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La raffinazione delle farine
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La raffinazione delle farine
La raffinazione della farine (fai sa farra) era un’attività prettamente femminile. La setacciatura aveva lo scopo di separare i diversi componenti dello sfarinato integrale, ottenendone crusca, farina, semola, cruschello...
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Lievitazione naturale e lavorazione della pasta del pane
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Lievitazione naturale e lavorazione della pasta del pane
Dopo essere state vagliate, le farine “riposano” per almeno un giorno dentro appositi cesti, corbule,  ricoperte da candidi teli.
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Le attività decorative che interessano il pane si esprimono nella Lingua sarda con il verbo pintare o frorire, invalsi anche per indicare qualsiasi attività esornativa praticata anche in altri ambiti artigianali: p. es....
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Nella Sardegna tradizionale il forno aveva caratteristiche differenti a seconda della relativa zona di appartenenza. Nel Campidano, e in generale nelle aree collinari e di pianura, il forno, a cupola poggiante su un para...
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Simbologie del grano e del pane - Pane di San Filippo
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Simbologie del grano e del pane
Nella cultura sarda il grano assurge a simbolo di prosperità e buona sorte. Per esempio, il dono (presente) di grano agli sposi era ricorrente specie nell’area centrale dell’Isola, ad esempio, a Nuoro.
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La mietitura

Secondo una credenza popolare attestata in varie zone dell’Isola, il grano metterebbe i chicchi la notte di San Giovanni Battista (la notte fra il 23 e il 24 giugno), durante la quale si pensava che la natura acquistasse forze e poteri straordinari. Per tenere lontani dai seminati gli uccelli si utilizzavano rami di assenzio (sènciu e sim.) o spauracchi di foggia antropomorfa (mamutzone e sim.). Oltre agli uccelli, un grave pericolo da cui proteggere le piante coltivate, non diversamente dalle persone e dagli animali, era il malocchio (ogu malu e sim.). Per sventarne gli effetti era uso piuttosto diffuso  fissare su una pertica un paio di corna. Nel mese di giugno o in quello di luglio, a seconda della zona e delle consuetudini, aveva inizio la mietitura. Strumento indispensabile per la mietitura a mano (sa messa antiga) era la falce dentata. Con essa si falciava il grano press’ a poco a metà del culmo, cioè lo stelo) Solo il grano marzuolo, che non diventa molto alto, veniva falciato rasente al suolo (vd. il proverbio «Su trigu de martu, non lu messes artu»: ‘Il grano marzulo, non falciarlo in alto’). Nella variante campidanese, oltre che “messai”, mietere si dice anche “crubai”: lett. ‘curvare’, in un certo senso ‘piegare’ le spighe, per poterle falciare. La falce si teneva in una mano, mentre con l’altra si afferrava il gruppo di steli da recidere (manadas). L’insieme di due o tre manadas formavano una mezzo covone: “perra”. Il verbo “mannugare” e sim. indica l’azione di accovonare. I fasci di covoni venivano legati e ammucchiati nel campo a gruppi di nove. I mietitori (messadoris) per proteggersi dalle ariste del grano indossavano un grembiule di tela (deventali / pannu ’e ananti) e coperture di pelle o stoffa sui polsi e gli avambracci. Le spigolatrici (spigadrixis) erano le donne che raccoglievano le spighe cadute ai mietitori e quelle non tagliate dalle falci. Is spigadrixis, che potevano essere imparentate con su messadori (moglie, fidanzata o sorelle), avevano legata alla cintola una sacca di juta o lino (sachita), nella quale inserivano le spighe prive di culmo (cioè lo stelo). A metà mattina si faceva una pausa per consumare “su murtzu”, una sorta di colazione consistente in pane, formaggio, uova, pomodori, olive, cipolle, vino, vinello o acqua, a seconda delle possibilità. Le donne, inoltre, raccoglievano la paglia di grano (fai su fenu) necessaria alla realizzazione degli oggetti di cestineria (su stexu ’e  fenu). Nel Campidano i lavori di mietitura e di trebbiatura erano accompagnati dal cosiddetto “cantu a s’opu”, un canto lavorativo tradizionale, consistente in mutetus accompagnati dal coro «Oooopu». Si cantava per rendere meno gravosi la fatica di un lavoro eseguito sotto il sole cocente e la calura ormai estiva. Si aggiunga che spesso questi canti venivano eseguiti allo scopo di creare nuove unioni: gli uomini e le donne sposate, cercavano, infatti, di far maritare le spigolatrici nubili con qualche giovane mietitore in cerca di moglie.

Leggi tutto Leggi tutto Secondo una credenza popolare attestata in varie zone dell’Isola, il grano metterebbe i chicchi la notte di San Giovanni Battista (la notte fra il 23 e il 24 giugno), durante la quale si pensava che la natura acquistasse forze e poteri straordinari. Per tenere lontani dai seminati gli uccelli si utilizzavano rami di assenzio (sènciu e sim.) o spauracchi di foggia antropomorfa (mamutzone e sim.). Oltre agli uccelli, un grave pericolo da cui proteggere le piante coltivate, non diversamente dalle persone e dagli animali, era il malocchio (ogu malu e sim.). Per sventarne gli effetti era uso piuttosto diffuso  fissare su una pertica un paio di corna. Nel mese di giugno o in quello di luglio, a seconda della zona e delle consuetudini, aveva inizio la mietitura. Strumento indispensabile per la mietitura a mano (sa messa antiga) era la falce dentata. Con essa si falciava il grano press’ a poco a metà del culmo, cioè lo stelo) Solo il grano marzuolo, che non diventa molto alto, veniva falciato rasente al suolo (vd. il proverbio «Su trigu de martu, non lu messes artu»: ‘Il grano marzulo, non falciarlo in alto’). Nella variante campidanese, oltre che “messai”, mietere si dice anche “crubai”: lett. ‘curvare’, in un certo senso ‘piegare’ le spighe, per poterle falciare. La falce si teneva in una mano, mentre con l’altra si afferrava il gruppo di steli da recidere (manadas). L’insieme di due o tre manadas formavano una mezzo covone: “perra”. Il verbo “mannugare” e sim. indica l’azione di accovonare. I fasci di covoni venivano legati e ammucchiati nel campo a gruppi di nove. I mietitori (messadoris) per proteggersi dalle ariste del grano indossavano un grembiule di tela (deventali / pannu ’e ananti) e coperture di pelle o stoffa sui polsi e gli avambracci. Le spigolatrici (spigadrixis) erano le donne che raccoglievano le spighe cadute ai mietitori e quelle non tagliate dalle falci. Is spigadrixis, che potevano essere imparentate con su messadori (moglie, fidanzata o sorelle), avevano legata alla cintola una sacca di juta o lino (sachita), nella quale inserivano le spighe prive di culmo (cioè lo stelo). A metà mattina si faceva una pausa per consumare “su murtzu”, una sorta di colazione consistente in pane, formaggio, uova, pomodori, olive, cipolle, vino, vinello o acqua, a seconda delle possibilità. Le donne, inoltre, raccoglievano la paglia di grano (fai su fenu) necessaria alla realizzazione degli oggetti di cestineria (su stexu ’e  fenu). Nel Campidano i lavori di mietitura e di trebbiatura erano accompagnati dal cosiddetto “cantu a s’opu”, un canto lavorativo tradizionale, consistente in mutetus accompagnati dal coro «Oooopu». Si cantava per rendere meno gravosi la fatica di un lavoro eseguito sotto il sole cocente e la calura ormai estiva. Si aggiunga che spesso questi canti venivano eseguiti allo scopo di creare nuove unioni: gli uomini e le donne sposate, cercavano, infatti, di far maritare le spigolatrici nubili con qualche giovane mietitore in cerca di moglie.

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