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Ceramica

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La ceramica sarda di antica tradizione si è espressa essenzialmente nelle terrecotte, in alcuni casi invetriate mediante galena piombifera, realizzate al tornio. L'isola, ricca di argille, aveva in Oristano il centro più attivo e di eccellenza; altri erano Assemini, Villaputzu e Dorgali. I ceramisti di Pabillonis, a sud di Oristano, erano specializzati nella realizzazione di stoviglie (pentole e casseruole) pirofile. Ma una limitata produzione di terrecotte era presente in molti altri centri sparsi sull'intero territorio isolano. In numerosi villaggi, ad esempio, si è serbata memoria della produzione locale, cotta in una primitiva fornace, di tegole ("coppo sardo", mediamente più grande della dimensione oggi corrente) o, più raramente, di mattoni pieni. Tuttavia, le tegole così ottenute avevano vita breve a causa della non perfetta pulitura dell'argilla dalle materie estranee che ne facilitavano la fessurazione.
Le forme d'uso domestico più diffuse sono state due: la brocca, quella principale, e la conca. La brocca era destinata al prelievo dell'acqua potabile, in assenza di una rete idrica pubblica. In casa aveva un posto riservato che prevedeva la raccolta dei liquidi di trasudamento; in estate si copriva con un panno umido per mantenere costante la temperatura dell'acqua. Allargata nella bocca e nel collo, e portata da due a quattro manici ("asas"), diventava contenitore per cibi (miele, lardo, frutta, olive). Diffusa capillarmente in tutta l'isola, la brocca è rimasta il simbolo della perizia dei tornitori sardi (che per entrare nella corporazione dovevano saper realizzare tale manufatto in dimensioni scalari) e dei fornaciai, specializzazioni racchiuse nella generica definizione di artigiano della creta.
Essa mostrava leggere differenze nella forma della pancia, del collo, delle anse, a seconda del centro di produzione dove, naturalmente, erano realizzate in misure differenti, dalla piccola ("brocchittolu"), alla media ("brocchitta"), alla più grande. Una variante occasionale della brocca, realizzata a Oristano, era quella detta "della festa" o "della sposa", arricchita da aggiunte plastiche con veri e propri cicli narrativi tematici. Questa brocca rituale, pezzo di bravura recante spesso il nome dell'autore, era, a differenza di quella d'uso, invetriata con la galena che ne dava la caratteristica colorazione nelle sfumature del verde o del giallo, a seconda che vi prevalesse il rame o il ferro.
La conca ("scivedda, tianu"), grande bacile tronco-conico, era destinata principalmente a coadiuvare le fasi della panificazione: col bordo basso quella destinata alla lavorazione dell'impasto, alto qualora fosse impiegata per la lievitazione. Questa prassi panificatoria, diffusa nelle aree a vocazione frumentaria della Sardegna, quindi al centro-sud, determina in queste zone la massima diffusione della conca. Se ne conoscono rari esemplari istoriati, destinati a un uso rituale.
La modellazione di brocche e conche, ancora negli anni Cinquanta del secolo XX, avveniva per mezzo del tornio azionato dal piede. Una brocca di medie dimensioni piena d'acqua, portata un tempo sul capo attraverso la mediazione di un cercine in tessuto, aveva un certo peso: obiettivo del tornitore era dunque quello di realizzare un manufatto dai bordi sottili (in tal senso le pentole pirofile originarie di Pabillonis presentano spessori di impressionante sottigliezza), prassi completamente tradita dall'attuale produzione a scopo turistico.

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Pane ’e saba

Subito dopo la vendemmia si prepara la sapa o vincotto, il più arcaico dei dolcificanti della tradizione sarda (assieme al miele). Si ottiene  attraverso la cottura del mosto non ancora fermentato, insaporito dalle note aromatiche delle spezie, fra le quali spicca soprattutto la scorza d’arancia. Integrando la sapa all’impasto del pane, se ne ottiene un pane “condito”, sconfinante nell’ambito del dolce, che può essere ulteriormente arricchito dalla frutta secca. A volte, alla sapa può essere aggiunta anche una piccola quantità di miele. Su fatu e cotu (lett. ‘fatto e cotto’, scil. impastato e messo in forno), grazie all’impiego del lievito chimico, è di ben più rapida preparazione rispetto alla ricetta caratterizzata dai tempi lunghi richiesti dalla lievitazione naturale. Spesso su pane ’e saba  assume la valenza di pane cerimoniale. Nell’orizzonte tradizionale l’occasione della sua preparazione coincideva per lo più con le festività autunnali (Ognissanti e la Commemorazione dei Defunti) e invernali (Natale, ecc.). Spesso assumeva, inoltre, la funzione di alimento votivo in onore di santi patroni e martiri. Ancora oggi, ad esempio, a Quartu Sant’Elena vengono posizionati quattro grossi pani ’e saba finemente decorati con s’indoru (foglia d’oro per uso alimentare) ai piedi della statua della patrona Sant’Elena portata in processione su un carro a buoi, in occasione della festività liturgica dell’Esaltazione della Santa Croce (14 settembre). Ad Atzara è tradizione confezionare il pane sapato per la festa del patrono Sant’Antioco Martire (13 novembre), in passato la festa più importante di tutto l’anno. In quest’occasione accorrevano nel borgo del Mandrolisai non solo numerosi forestieri, ai quali era garantito vitto e alloggio dalla popolazione locale, ma anche i più bisognosi provenienti dai paesi vicini, ai quali era destinata come elemosina una tipologia di pane ’e sapa detta prana, liscia, in contrapposizione a quella froria (decorata), ricoperta di mandorle sgusciate. A Sini, paese della Marmilla, ancora oggi si prepara su pani ’e saba per donarlo al San Giorgio. Modalità dell’offerta votiva è l’impiego del denaro ricavato dalla vendita del pane dolcificato ai fini della manutenzione della chiesetta campestre intitolata al santo megalomartire. La sapa era anche un segno di distinzione sociale. Se la varietà più pregiata era quella d’uva o di fichi, appannaggio dei più poveri era quella ricavata dai frutti selvatici, come il fico d’India o il corbezzolo. Un tempo segno di povertà, la sapa di fico d’India oggi è caratterizzata dalle attribuzioni di prodotto locale di nicchia per i turisti gastronomici e culturali, come quelli che ogni anno partecipano alla sagra del fico d’India a Dualchi, paese del Marghine.

Leggi tutto Leggi tutto Subito dopo la vendemmia si prepara la sapa o vincotto, il più arcaico dei dolcificanti della tradizione sarda (assieme al miele). Si ottiene  attraverso la cottura del mosto non ancora fermentato, insaporito dalle note aromatiche delle spezie, fra le quali spicca soprattutto la scorza d’arancia. Integrando la sapa all’impasto del pane, se ne ottiene un pane “condito”, sconfinante nell’ambito del dolce, che può essere ulteriormente arricchito dalla frutta secca. A volte, alla sapa può essere aggiunta anche una piccola quantità di miele. Su fatu e cotu (lett. ‘fatto e cotto’, scil. impastato e messo in forno), grazie all’impiego del lievito chimico, è di ben più rapida preparazione rispetto alla ricetta caratterizzata dai tempi lunghi richiesti dalla lievitazione naturale. Spesso su pane ’e saba  assume la valenza di pane cerimoniale. Nell’orizzonte tradizionale l’occasione della sua preparazione coincideva per lo più con le festività autunnali (Ognissanti e la Commemorazione dei Defunti) e invernali (Natale, ecc.). Spesso assumeva, inoltre, la funzione di alimento votivo in onore di santi patroni e martiri. Ancora oggi, ad esempio, a Quartu Sant’Elena vengono posizionati quattro grossi pani ’e saba finemente decorati con s’indoru (foglia d’oro per uso alimentare) ai piedi della statua della patrona Sant’Elena portata in processione su un carro a buoi, in occasione della festività liturgica dell’Esaltazione della Santa Croce (14 settembre). Ad Atzara è tradizione confezionare il pane sapato per la festa del patrono Sant’Antioco Martire (13 novembre), in passato la festa più importante di tutto l’anno. In quest’occasione accorrevano nel borgo del Mandrolisai non solo numerosi forestieri, ai quali era garantito vitto e alloggio dalla popolazione locale, ma anche i più bisognosi provenienti dai paesi vicini, ai quali era destinata come elemosina una tipologia di pane ’e sapa detta prana, liscia, in contrapposizione a quella froria (decorata), ricoperta di mandorle sgusciate. A Sini, paese della Marmilla, ancora oggi si prepara su pani ’e saba per donarlo al San Giorgio. Modalità dell’offerta votiva è l’impiego del denaro ricavato dalla vendita del pane dolcificato ai fini della manutenzione della chiesetta campestre intitolata al santo megalomartire. La sapa era anche un segno di distinzione sociale. Se la varietà più pregiata era quella d’uva o di fichi, appannaggio dei più poveri era quella ricavata dai frutti selvatici, come il fico d’India o il corbezzolo. Un tempo segno di povertà, la sapa di fico d’India oggi è caratterizzata dalle attribuzioni di prodotto locale di nicchia per i turisti gastronomici e culturali, come quelli che ogni anno partecipano alla sagra del fico d’India a Dualchi, paese del Marghine.

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