Per quel che riguarda i pani del tempo ordinario la Sardegna può essere suddivisa in tre macro-aree: 1) un’ampia area meridionale in cui si producono pani grossi e con mollica; 2) una zona centrale caratterizzata dalla produzione di un pane a sfoglia (rettangolare, ovale, circolare), da cui si ottengono due fogli croccanti (pane carasau, pan’ ’e fresa, pistocu); 3) una zona settentrionale che si distingue per la produzione di un pane a sfoglia circolare morbida suddivisibile in due fogli (ispianada, pane di Ozieri, pane fine, pan’ ’e pòdhine, pistocu lentu, ecc.).
La preparazione manuale del pane carasa prevedeva, tradizionalmente, la presenza di un gruppo di lavoro femminile caratterizzato da ruoli coordinati e gerarchizzati. Difficilmente il singolo nucleo familiare disponeva di manodopera sufficiente. Si ricorreva, perciò, al contributo di vicine di casa o parenti, alle quali, al momento opportuno, sarebbe stato restituito il favore, oppure si precettavano le cosiddette agiudantes, che venivano retribuite con parte dello stesso pane prodotto. Le donne sedevano per terra con le gambe stese, sopra le quali poggiava un tagliere di legno (tageri), sul quale stendere con l’ausilio di un sottile matterello (cannedhu) l’impasto, conferendo a esso una forma circolare. La prima modellava in maniera grossolana la sfoglia, che veniva progressivamente affinata passando dal tagliere di un’operatrice a quello dell’altra, sinché modellata alla perfezione alla fine del circuito veniva affidata all’infornatrice (inforradora), addetta alla cottura del pane. Quest’ultima, data l’esperienza richiesta dalle operazioni di cottura, era spesso una figura di mestiere che operava, dietro retribuzione, di casa in casa, spesso in paesi vicini. Sebbene a tutt’oggi esistano impastatrici e sfogliatrici, che agevolano certamente il lavoro, tuttavia nelle piccole imprese la cottura continua a essere eseguita manualmente nel forno a legna. Inserita nel forno, la spianata si gonfia, determinando la formazione di due sfoglie molto sottili unite soltanto dal bordo esterno della circonferenza. Occorre grande perizia nel manovrare, attraverso la pala, il pane durante la cottura, affinché non vada incontro a lacerazioni e prenda calore uniformemente dal cielo e dal pavimento del forno. Estratta dal forno, la “sfera di pane” si sgonfia e passa nelle mani di una donna che provvede a separare con un coltello (fresare) le due sfoglie circolari dello stesso pane (duos pizos). Una volta freddate, parte delle sfoglie, vengono sottratte al processo di carasatura (abbrustolitura). Risultano cedevoli e devono essere consumate in tempi rapidi, affinché non si ammuffiscano. Questo tipo di pane prende il nome di pane lentu o modhe, a seconda del paese di riferimento. La gran parte delle sfoglie viene reimmessa nel forno per la carasatura. Le foglie carasate sono così sottili, che su pane carasau è denominato in italiano carta da musica; per assimilazione alla pergamena, antico supporto scrittorio per le musiche sacre. Il pane, disidratato attraverso il processo di tostatura, si conserva a lungo nel tempo ed era, perciò, il pane che i pastori portavano con sé durante i lunghi tempi della transumanza. Sulla preparazione del pane carasau esistono passi letterari di grande suggestione. Ricordiamo, ad esempio, il celebre brano del V capitolo del Giorno del giudizio (1979), romanzo postumo dello scrittore nuorese Salvatore Satta: Per cuocere il pane venivano donne del vicinato; perché l’impresa era grossa, e bisognava impastare, tirare la pasta in larghe sfoglie, passarle una a una alla donna che sedeva presso la bocca del forno, con le cocche del fazzoletto rialzate sulla testa, il viso illuminato all’ombra. Questa metteva la sfoglia su una pala liscia e sottile, di quelle che fabbricavano d’inverno i pastori di Tonara, immobilizzati dalla neve, e scendevano a venderle a Nuoro in primavera, sui loro magri cavalli; infilava la pala nel forno e la sfoglia al calore diventava, se era ben fatta, un’immensa palla, che veniva passata a un’altra donna seduta con le gambe in croce davanti a un panchetto, e con un coltello la ritagliava lungo i bordi, e ne venivano fuori due ostie fumanti che pian piano s’irrigidivano, diventavano croccanti e andavano a formare le alte pile che poi si sarebbero infilate nella credenza. Esistevano fondamentalmente tre tipologie di pane carasau: su lìmpidu, cosiddetto in ragione del colore chiaro, appannaggio dei ceti più benestanti; su chivarju (integrale) e s’orjathu il pane d’orzo. Gli ultimi due erano di pertinenza delle classi più umili e dei servi.
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