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Ropa infantil

Ropa infantil

Ropa infantil

En el período comprendido entre la primera mitad del siglo XIX y los años cincuenta del siglo XX, el equipo mínimo para cada recién nacido sardo consistía en pañales (manthedu, fascas, zimussas y sim.), fundas y camisas (coritos y sim.). Si durante este período los niños fueron sometidos a un vendaje completo, solo a partir de mediados del siglo XX, prevalecerá la práctica de un vendaje parcial, limitado al tronco y destinado a brindar soporte a la columna vertebral. Durante este período, la parte superior del cuerpo se cubre con fundas y camisas, mientras que la parte inferior se cubre con paños en capas y bolsas atadas con cintas. Al mismo tiempo, se está extendiendo el uso de vestidos, mucho más largos que la altura del niño, confeccionados con materiales más o menos valiosos en relación con el estatus social y la ocasión de uso

.

La cabeza del recién nacido está cubierta, desde los primeros días de vida, por auriculares (caretas, cambussus, iscofias y sim.) de varios tipos y materiales, a menudo confeccionados con colores variados, bordados policromados, aplicaciones de adornos y flecos, según un estilo similar al de la ropa tradicional para adultos.

Hasta los tres o cuatro años, los niños llevan ropa que se puede atribuir básicamente a dos grandes grupos. El primero incluye conjuntos de ropa con una clara impronta local hechos con telas, cortes y adornos representativos del grupo cultural que los produjo. El segundo incluye vestidos con canesú corto y falda plisada o rizada (beste y sim.), un modelo indiferenciado para ambos sexos, atribuible a los tipos

utilizados después de las primeras décadas del siglo XX en toda Europa.

Entre los cinco y los once años, los niños y las niñas visten, según una versión simplificada, prendas muy parecidas a las de los adultos, cuyos nombres suelen conservar, con las valiosas variantes que permiten las condiciones sociales y con diferencias relacionadas con la ocasión utilizada (festiva o diaria).

La ropa interior, más o menos común en relación con las condiciones económicas, consiste en enaguas, abrigos, enaguas, camisetas y ropa interior sustancialmente igual a la de los adultos. Incluso los zapatos, los zuecos o las botas con tachuelas

se utilizan habitualmente solo entre los ricos.

Alrededor de los años veinte del siglo XX, fuimos testigos de la introducción gradual de prendas de estilo moderno que eventualmente reemplazarían a los atuendos de inspiración tradicional.

Perspectivas

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Abiti tradizionali

L’insieme vestimentario oggi comunemente definito tramite l’espressione “costume popolare della Sardegna” costituisce il risultato di un lunghe e complesse dinamiche di trasformazione e rifunzionalizzazione che occupano il periodo intercorrente fra il XVI secolo per concludersi alla fine del XIX secolo. I più importanti viaggiatori settecenteschi e ottocenteschi  (J. Fuos, W. Smith, il francese A.C. Pasquin detto Valery, A. Bresciani, ecc.) nei loro resoconti tessono le lodi, ammirati,  della magnificenza degli abiti  e della gioielleria dei Sardi. Alcune opere sono illustrate dallo stesso autore, come  Les îles oubliées (1893) del Valery, altre corredate da tavole eseguite da disegnatori e pittori, come le litografie annesse all’Atlas del La Marmora realizzate da G. Cominotti ed E. Gonin, pubblicate per la prima volta nel 1826. Preziose dal punto di vista documentario sono ulteriori fonti iconografiche d’epoca sull’abbigliamento popolare sardo: dalle tavole della Collezione Luzzietti (databili fra la fine del 1700 e gli inizi del 1800), agli acquerelli di Tiole (1819-1826), alle litografie a colori di L.  Baldassarre (1841),  alla Galleria di costumi sardi  del  Dalsani  (1878). Lo sguardo “dall’esterno” dei viaggiatori contribuì non poco ad ammantare l’abbigliamento tradizionale sardo di un’aura mitizzante, declinata in prospettiva antiquaria e comparata al mondo biblico o all’antichità classica. Specie i testi degli autori dell’ultimo trentennio del XIX secolo (von Maltzan, Mantegazza, Corbetta, Vuillier, ecc.) esaltano l’armonia cromatica degli abiti delle popolane e la loro bellezza «antica e fiera». Il carattere conservativo dell’abbigliamento trova riverbero nell’etica austera del popolo che lo indossa e nella postura ieratica. Nonostante l’evidente intento mitizzante, che sarà assorbito anche dagli scrittori sardi  ̶̶  fra tutti il Nobel Grazia Deledda  ̶̶ , tuttavia, nei resoconti dei viaggiatori è colta con estrema attenzione la funzione demarcatrice delle fogge del vestire fra un paese e l’altro.  Le donne […] in Sardegna non escono di loro fogge per niuna cosa del mondo. E comechè i villaggi di Selargius, di Pauli, di Pirri, di Sestu, di Maracalagonis siano così prossimi l’uno all’altro che alcuni sentono le campane delle circostanti Pievi, tuttavia ciascun villaggio si discosta dall’altro per tal maniera, che a prim’occhio si dice: quella è donna di Quartu, quell’altra è di Sestu, di Pauli, o di Sinai: ciò non reca meraviglia a chi conosce il paese, specialmente ne’ luoghi più interni dell’isola. (A. Bresciani, 1850). Tale funzione identificatrice dell’“abito bandiera”, collante per i sentimenti di appartenenza identitaria, permane a tutt’oggi. Attualmente l’abito tradizionale non risponde più alle funzioni pratiche che soddisfaceva in passato: riscaldare il corpo nelle stagioni più rigide, scandire l’identità civile e sociale, indicare lo stato d’animo (la gioia nel cromatismo acceso dei colori e il lutto, principalmente espresso dal nero). Oggidì “il costume riproposto” si indossa limitatamente a occasioni speciali, come processioni, sagre e manifestazioni a carattere turistico. Risponde, sì, alla necessità d’individuare e portare alta la bandiera paesana o cittadina, ma è soprattutto legato alla funzione di definire un’unica identità etnica, quella sarda, pur nella variegata molteplicità delle sue appartenenze locali.

Leer todo Leer todo L’insieme vestimentario oggi comunemente definito tramite l’espressione “costume popolare della Sardegna” costituisce il risultato di un lunghe e complesse dinamiche di trasformazione e rifunzionalizzazione che occupano il periodo intercorrente fra il XVI secolo per concludersi alla fine del XIX secolo. I più importanti viaggiatori settecenteschi e ottocenteschi  (J. Fuos, W. Smith, il francese A.C. Pasquin detto Valery, A. Bresciani, ecc.) nei loro resoconti tessono le lodi, ammirati,  della magnificenza degli abiti  e della gioielleria dei Sardi. Alcune opere sono illustrate dallo stesso autore, come  Les îles oubliées (1893) del Valery, altre corredate da tavole eseguite da disegnatori e pittori, come le litografie annesse all’Atlas del La Marmora realizzate da G. Cominotti ed E. Gonin, pubblicate per la prima volta nel 1826. Preziose dal punto di vista documentario sono ulteriori fonti iconografiche d’epoca sull’abbigliamento popolare sardo: dalle tavole della Collezione Luzzietti (databili fra la fine del 1700 e gli inizi del 1800), agli acquerelli di Tiole (1819-1826), alle litografie a colori di L.  Baldassarre (1841),  alla Galleria di costumi sardi  del  Dalsani  (1878). Lo sguardo “dall’esterno” dei viaggiatori contribuì non poco ad ammantare l’abbigliamento tradizionale sardo di un’aura mitizzante, declinata in prospettiva antiquaria e comparata al mondo biblico o all’antichità classica. Specie i testi degli autori dell’ultimo trentennio del XIX secolo (von Maltzan, Mantegazza, Corbetta, Vuillier, ecc.) esaltano l’armonia cromatica degli abiti delle popolane e la loro bellezza «antica e fiera». Il carattere conservativo dell’abbigliamento trova riverbero nell’etica austera del popolo che lo indossa e nella postura ieratica. Nonostante l’evidente intento mitizzante, che sarà assorbito anche dagli scrittori sardi  ̶̶  fra tutti il Nobel Grazia Deledda  ̶̶ , tuttavia, nei resoconti dei viaggiatori è colta con estrema attenzione la funzione demarcatrice delle fogge del vestire fra un paese e l’altro.  Le donne […] in Sardegna non escono di loro fogge per niuna cosa del mondo. E comechè i villaggi di Selargius, di Pauli, di Pirri, di Sestu, di Maracalagonis siano così prossimi l’uno all’altro che alcuni sentono le campane delle circostanti Pievi, tuttavia ciascun villaggio si discosta dall’altro per tal maniera, che a prim’occhio si dice: quella è donna di Quartu, quell’altra è di Sestu, di Pauli, o di Sinai: ciò non reca meraviglia a chi conosce il paese, specialmente ne’ luoghi più interni dell’isola. (A. Bresciani, 1850). Tale funzione identificatrice dell’“abito bandiera”, collante per i sentimenti di appartenenza identitaria, permane a tutt’oggi. Attualmente l’abito tradizionale non risponde più alle funzioni pratiche che soddisfaceva in passato: riscaldare il corpo nelle stagioni più rigide, scandire l’identità civile e sociale, indicare lo stato d’animo (la gioia nel cromatismo acceso dei colori e il lutto, principalmente espresso dal nero). Oggidì “il costume riproposto” si indossa limitatamente a occasioni speciali, come processioni, sagre e manifestazioni a carattere turistico. Risponde, sì, alla necessità d’individuare e portare alta la bandiera paesana o cittadina, ma è soprattutto legato alla funzione di definire un’unica identità etnica, quella sarda, pur nella variegata molteplicità delle sue appartenenze locali.

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