Il primo giorno di gennaio è una festa religiosa di precetto. Otto giorni dopo il Natale, infatti, la liturgia cattolica ricorda Maria Santissima, Madre di Dio.
Tradizionalmente, al pari di tutti i momenti di passaggio dal vecchio al nuovo, sia del ciclo calendariale che di quello astronomico (ancora prossimo al solstizio d’inverno), anche il periodo comprendente la fine e l’inizio dell’anno era considerato adatto per trarre presagi dal mondo della natura, particolarmente dalle specie vegetali.
A Cagliari, ad esempio, si usavano foglie d’olivo per una pratica chiamata s’olieddu. Per sapere se due giovani si sarebbero fidanzati si prendevano due foglie fresche d’olivo e, scritto su una il nome del ragazzo e sull’altra quello della ragazza, le si bagnava con la saliva e le si metteva sulla cenere calda: se le foglie, accartocciandosi, si avvicinavano voleva dire che i due si sarebbero spostati.
Altra forma di pronostico, sempre invalsa a Cagliari, erano is ciascus, responsi spesso burleschi, scritti su bigliettini che si estraevano a sorte come i numeri di una tombola.
Nell’Iglesiente è stata riportata in vita un’antica usanza, detta dei candeberis, consistente nell’offerta alle persone bisognose da parte dei contadini di grano cotto condito col latte e col miele; nome e consuetudine rimandano al donum calendarium di epoca romana, lo scambio dei doni augurali che avveniva alle Calende, il primo giorno di gennaio. Hanno probabilmente la stessa origine alcune questue dell’ultimo dell’anno: quali sa candelaria a Orgosolo e su candelàriu nuorese. Quest’ultima è documentata da Grazia Deledda nel lavoro giovanile sulle tradizioni popolari di Nuoro. Ne ricaviamo che la denominazione candelàriu era assegnata sia alla questua infantile che si teneva nel Capoluogo della Barbagia l’ultimo giorno dell’anno, sia all’oggetto dell’elargizione (frutta secca), sia, infine, a un pane «piccolo, bianco, frastagliato, lucido, in forma di uccelli e di altri animali», confezionato appositamente per l’occasione.
Del donum calendarium pare di poter trovare traccia anche nel nome dei candelaus / scandelaus, raffinati dolci in pasta e candito di mandorle diffusi nel Campidano, con centro produttivo di eccellenza Quartu Sant’Elena. Forse un tempo questa varietà di dolci, ora panstagionale, era associata specificamente alle festività di fine d’anno. In mancanza di altra documentazione, è il dato linguistico, con i relativi studi, a far propendere in questa direzione.
Di fronte all’incertezza e alle numerose incognite del nuovo anno che cominciava erano numerosi i riti propiziatori. La gran parte coinvolgeva alimenti, la cui consumazione era preceduta da ritualità beneauguranti. In alcuni paesi del Logudoro, ad esempio, si preparava su càbude, pane augurale dalla foggia antropomorfa, mentre altrove era una focaccia farcita con la sapa. A Ozieri il capofamiglia la spezzava sulla testa del figlio più piccolo (in altri paesi su quella del primogenito), recitando per tre volte la formula «Su bene a mizas!» (‘Il bene a migliaia’).
In alcuni paesi del Logudoro, come Pattada, e della Barbagia le famiglie dei pastori preparavano sa peltusita, un pane benaugurante con un foro (peltusu) al centro e sulla cui superficie venivano collocate statuine di pane che riprendevano figure e ambiente del mondo pastorale; come il pastore col cane, l’ovile, le pecore.
Le famiglie contadine preparavano, invece, sa giuada (lett. ‘il giogo’), un pane rotondo sul quale collocavano raffigurazioni del contadino, del giogo dei buoi, semi di grano in quantità come augurio di abbondanza.
Sempre in rapporto al valore augurale del grano, in alcuni paesi se ne dava da mangiare agli animali domestici e lo si lanciava in alto nelle diverse parti della casa, volendo simulare l’alto cumulo di raccolto che ci si auspicava di ottenere una volta conclusosi il ciclo agrario.
(Immagine di copertina "Stella cometa", Maria Lai. Fotografia di Nelida Beatriz Dietzel - 2014)
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Autore : Contini, Gabriella
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