Il calendario liturgico romano identifica nel primo giorno di novembre la solennità di Ognissanti, festa di precetto, seguita il giorno successivo dalla Commemorazione dei defunti. Ma, accanto ai riti e alla celebrazioni sancite dalla religione ufficiale, esiste a livello della religiosità popolare, anche a in Sardegna, un affascinante universo di simboli e pratiche che affonda le proprie radici nella contrapposizione fondamentale fra morte e vita. Nel tempo protetto della festa l’aspetto perturbante della morte viene gestito e controllato grazie alla mediazione della cultura, che con i suoi rituali permette un ideale “ritorno” dei morti nello spazio dei vivi. A tal fine rispondono tradizioni come quella, ben attestata nell’Isola (e ancora vitale nelle aree più conservative) soprattutto nella notte fra l’1° e il 2° giorno di novembre, di lasciare la tavola imbandita per le anime dei propri cari estinti, che, si credeva, avrebbero fatto ritorno a mezzanotte nelle proprie dimore, per trovare conforto nel profumo (immateriale come lo spirito) dei cibi amati in vita.
Altro modo di concretizzare, specie attraverso la materialità del cibo, la riunione fra morti e vivi, erano le offerte, preminentemente alimentari (pane, dolci, frutta secca) a figure considerate nel pensiero folklorico come ambasciatori dei defunti. Si tratta in primo luogo dei bambini, che in ragione di una concezione ciclica della vita, vengono considerati entità più prossime agli antenati, se non una loro promanazione, come dimostra la consuetudine di torrare a lùmene sos mannos (‘dare ai bambini il nome dei loro avi’). Inoltre, i bambini, ragione della loro prossimità temporale al momento della nascita, zona indistinta nella quale si confonde il bivio fra morte e vita, sono ritenuti i migliori mediatori con i defunti. Proprio come questi ultimi, in quanto non possessori di beni materiali, sono classificati alla stregua di outsider della società. Per la stessa ragione anche i poveri fungono, a livello tradizionale, come vicari (cioè ambasciatori) dei morti. Anche i becchini, i guardiani del cimitero, per la vicinanza fisica con i defunti, e i campanari, i chierichetti e i sagrestani, operatori del sacro, e dunque mediatori fra la vita e l’aldilà, partecipano della stessa funzione di intermediazione.
Le figure vicariali dei morti fin qui menzionate, specialmente i bambini, sono protagoniste di questue rituali variamente denominate nell’Isola, a seconda del paese di riferimento: su mortu mortu, su bene ’e sas ànimas, is animeddas. Alcune denominazioni alludono all’oggetto della questua già nel nome che le identifica: p. es. su pane e binu (pane e vino), su peticocone (dal verbo pètere ‘chiedere’ + il nome del pane: su cocone), su pane ’e su tocu (col riferimento al tocco della porta col quale, in ogni abitazione, annunciano la propria visita i questuanti), ecc. I nomi del tipo su prugadòriu e sim., invece, fanno riferimento alla sovrapposizione a un nucleo più antico dei significati attinenti all’ideologia del suffragio propria della religione ufficiale. In questo caso le elargizioni ai questuanti rappresentano una sorta di obolo in suffragio dei propri cari defunti, al fine di abbreviarne le pene purgatoriali.
Per comprendere, però, il significato più profondo delle offerte elargite ai questuanti, occorrerà ricordare che nei più antichi nuclei religiosi di matrice agraria (che interessano anche la Sardegna, i cui principali pilastri dell’economia tradizionale sono costituiti dall’agricoltura e dalla pastorizia) i morti erano ritenuti in grado di influire positivamente sulla crescita delle piante coltivate, specie del grano. Tale potere derivava loro dal fatto di condividere con i semi delle piante coltivate il ventre della terra, tanto che nella variante campidanese del sardo morire si dice andai a biri is trigus (‘andare a vedere il grano’, scil. i semi). Procurarsi l’“aiuto” dei defunti con offerte alimentari equivaleva a garantirsi il buon esito dell’annata agraria. Il momento in cui si svolgono tali questue autunnali (dal 31 ottobre al 2 novembre) coincide con le operazioni della semina, non solo fase iniziale del ciclo agricolo, ma anche momento in cui i semi si trovano nel grembo della terra, dominio dei morti.
È importante mettere in luce anche un’altra simbologia. Tradizionalmente, oltre al pane, venivano donate ai questuanti anche noci, mandorle, nocciole, uva passa; frutta secca tutta equiparabile ai semi e presente anche nei dolci tipici di questo periodo, papassinus / -os e pan’ ’e saba / sapa, anch’essi oggetto di dono.
Il seme, nel pensiero folklorico contadino, è considerato parte di un percorso vitale (vita, morte, vita) che si rinnova ciclicamente. Mangiando i semi, vita in potenza, si partecipa di questo percorso di ciclica rigenerazione, togliendo alla morte la parola definitiva sulla vita.
In Sardegna le suddette questue rituali autunnali si sono conservate vitali nei centri più conservativi. In alcune località, invece, sono state sottoposte a dinamiche di “riscoperta della tradizione” con moderne forme di contaminazione con il «Dolcetto o scherzetto?» di sapore anglosassone.
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