I termini tradizionali della Lingua Sarda indicanti il Natale sono Pasca ’e Nadale e Paschixedda, diminutivo di Pasca (Pasqua). L’uso del diminutivo per designare il Natale nel meridione dell’Isola nasce dal confronto implicito con la Pasqua di Resurrezione (Pasca e Pasca manna) e suggerisce il riconoscimento di quest’ultima (vd. l’aggettivo manna: ‘grande’) come la festa più importante della cristianità.
Quantunque oggidì la notte della vigilia di Natale rappresenti un momento di abbondanza alimentare, nell’orizzonte tradizionale essa era contraddistinta dal digiuno, conformemente a ciò che accadeva per le vigilie o i giorni precedenti altre feste importanti della cristianità: Pasqua, l’Esaltazione della Santa Croce, ecc. Pare facesse eccezione la Gallura, zona di frontiera più aperta alle contaminazioni, come testimoniato nel finire dell’Ottocento dal folklorista Francesco De Rosa. Ad Aggius e Bortigiadas, ad esempio, la cena della vigilia era un lauto pasto e si raccomandava ai bambini di mangiare a sazietà, altrimenti una strega, la Palpaéccia, avrebbe messo una pietra nello spazio rimasto vuoto nel loro stomaco.
Invece, un altro folklorista, Giuseppe Calvia, documenta all’inizio del Novecento nel Logudoro l’usanza del digiuno sino alla conclusione della Messa di mezzanotte, detta Missa ’e puddu poiché annunciata dal primo canto del gallo.
Sa notti ’e cena, ossia la notte della vigilia di Natale, nelle altre zone dell’Isola era caratterizzata da un pasto frugale. I pastori facevano ritorno nei loro paesi, e nel caminetto ardeva un ceppo di legno (detto su truncu ’e cena), conservato appositamente per l’occasione, che si cercava di far ardere sino all’Epifania. Che il fuoco rimanesse acceso, infatti, era segno e presagio di salute e prosperità.
Attorno al caminetto i più anziani raccontavano ai bambini leggende e fiabe tratte dal repertorio della narrativa popolare di tradizione orale, che i bambini ascoltavano incantati e che nel nuorese prendevano il nome di contos de fochile (lett. ‘racconti del focolare’). Un esempio particolarmente efficace del clima che si respirava nelle dimore del Nuorese la notte della vigilia di Natale ci viene offerto da una novella di Grazia Deledda Il vecchio Moisè, appartenente alla raccolta Il dono di Natale. Moisè era un porcaro che d’inverno custodiva branchi di porci e maialini che pascolavano e mangiavano le ghiande nei boschi di elci del monte Orthobene. Tuttavia non mancava di tornare in paese per le grandi solennità e specialmente desiderava trascorrere il Natale a casa dei padroni. Moisè era vecchio, sebbene ancora in forze, ed era fortemente radicato nel contesto tradizionale. Infatti, precisa la scrittrice, sapeva fare scongiuri contro il malocchio, contro le malattie del bestiame, contro le formiche che sottraevano il grano nelle aie, contro i bruchi, le cavallette e i vermi, e contro le aquile per impedir loro di rapire porcellini e agnellini. Ma soprattutto Moisè raccontava ai bambini «storie che risalivano agli “antichi tempi” quando Gesù non era nato ancora ed il mondo era popolato di gente semplice, ma anche di esseri fantastici, di animali che parlavano, di diavoli, di nani, di birghines, che erano buone con i buoni e cattive con i cattivi e passavano il tempo a tessere porpora e oro».
Seduti intorno al camino, «ove ardevano interi tronchi di quercia o intere radici di lentisco», la notte della vigilia i bambini del padrone ascoltavano attentamente. «Era presto ancora per la grande cena che si faceva dopo il ritorno dalla messa di mezzanotte», alla quale, però, vecchi e bambini non partecipavano per via del clima particolarmente rigido. Per tutti coloro che volessero mangiare «senza profanare la vigilia» si preparava un piatto di pasta condito con un sugo di noci pestate.
Il vero giorno dell’abbondanza alimentare era il 25 di dicembre, con la consumazione delle carni di maiale o di agnello. Non mancavano la frutta secca e i dolci del periodo autunnale e invernale: pane sapato, papassini, ecc. In occasione della vigilia di Natale i giovani regalavano doni alle fidanzate. Ricordiamo, per esempio, ancora un’opera deleddiana, Marianna Sirca, nella quale il bandito Simone Sole porta la notte delle vigilia all’amata Marianna un cinghialetto cacciato alla macchia.
Infine, la ricorrenza natalizia cade in prossimità del solstizio d’inverno (21 dicembre), uno dei momenti di passaggio del ciclo astronomico in occasione del quale si credeva che la natura si caricasse di poteri eccezionali. Si pensava, ad esempio, che chi assisteva a sa Missa de puddu (vd. supra) avrebbe goduto di particolari benefici: p. es. la creatura malformata di una donna gravida sarebbe guarita se la mamma avesse partecipato alla funzione religiosa. Ancora Grazia Deledda, nella ricerca giovanile sulle tradizioni popolari di Nuoro pubblicata nella «Rivista delle tradizioni popolari italiane» (1893-1895), diretta da Angelo De Gubernatis, documentava per il suo paese natale la credenza secondo cui a chi nasca la notte di Natale non si slegheranno mai le ossa e il giorno del Giudizio ritroverà integro il suo scheletro.
Nel Campidano di Cagliari era credenza diffusa che ai nati la notte del 24 dicembre non sarebbero caduti in vita né denti né capelli e che il loro corpo non si sarebbe decomposto una volta sepolto.
Nel Logudoro invece si riteneva che coloro che nascevano la notte della vigilia avrebbero potuto preservare dalle disgrazie sette case del vicinato.
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Anno : 2001
Anno : 2011
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